Quello che segue è l’emozionante racconto del nostro utente fran81cesco dell’avventuroso desert tour realizzato nel gennaio del 2009 verso Uluru (Ayers Rock), il sacro monolite di arenaria sito nel cuore dell’arido “Red Centre”, nel centro dell’Australia.
Mercoledì 21 gennaio 2009
Arrivai ad Alice Springs in un pomeriggio di gennaio. Mi ci erano volute quasi tre ore di volo per arrivare da Perth, dove avevo passato le prime tre settimane in Australia. Non mi scorderò mai del caldo e dell’afa che trovai appena sceso dall’aereo!
L’aeroporto era distante circa 13 chilometri dalla cittadina e ci vollero 15 minuti per arrivare al Toddy’s Resort con il bus navetta dell’ostello incluso nel prezzo di prenotazione: 22 dollari per notte. Lungo la strada che mi portava all’ostello mi sembrava quasi impossibile poter trovare una città: guardandomi intorno vedevo solo deserto e bush australiano. Poi, in un attimo, vidi comparire la civiltà. L’ostello era un po’ lontano dal centro, ma era davvero stupendo. Sembrava uno dei classici motel americani che si vedono nei film americani. A due piani, con le scale esterne per arrivare ai piani superiori e alle camere. Le stanze era davvero grandi, a differenza degli ostelli che avevo visto a Perth. Tre grandi letti a castello in una stanza che avrebbe potuto ospitarne altri cinque, aria condizionata e una piccola cucina.
Decisi di fare un giro in città, a piedi. Ci misi venti minuti per arrivare in centro, ma fu un’esperienza indimenticabile. Totalmente diverso dalle città o dai paesi che avevo visto in Europa, mi sembrava di guardare il mondo sotto un’altra prospettiva. Tutto attirava la mia attenzione e curiosità, il Saloon in tipico stile country, il drugstore aperto 24 ore, le villette e le case ad un piano, nessun palazzo. La cittadina era immersa nel pieno deserto e questa cosa mi dava un senso assoluto di libertà. A volte chiudevo gli occhi, disegnavo nella mia mente il mappamondo e pensavo a dove ero finito. Non lo avrei mai pensato.
Camminai tanto e vidi molte cose. Notai quante persone aborigene vi erano rispetto a Perth.
Dopo aver mangiato in un fast food ed essermi fermato al Saloon per bere una birra (dopo aver esibito il mio passaporto per poter entrare) tornai nell’ostello. Era già buio, erano le dieci di sera ed il tour verso Uluru sarebbe partito l’indomani alle sei.
Tutto era tranquillo, sono rimasto sul balcone del “motel” a fumare sigarette ed ascoltare musica con il mio lettore mp3. Fu una giornata particolarmente bella ad Alice Springs, che fino agli anni ’30 era chiamata Stuart, dal nome dell’esploratore che per primo tracciò una strada tra Darwin e Port Augusta, cittadina non molto lontana da Adelaide. Fu chiamata con il nome attuale Alice springs, le sorgenti di Alice, dal nome della moglie del Direttore generale delle poste del South Australia, Charles Todd, che installò un telegrafo per comunicare con la Gran Bretagna in prossimità di una sorgente del fiume Todd (dal nome dello stesso Charles).
Quello che più ricordo di Alice Springs e, comunque, di tutta la zona del deserto, fu la sensazione che il cielo fosse più basso. Sembrava che le stelle fossero più grandi e brillanti come se fossimo più vicini l’uno all’altro. Davvero grandioso.
Giovedì, 22 Gennaio 2009
L’indomani mi feci trovare pronto davanti all’ingresso dell’ostello alle sei in punto per aspettare che il pullman venisse a prendermi. Arrivò un piccolo bus bianco e vecchiotto con appresso un carrello con lo spazio per i sacchi a pelo e i nostri zaini. Salii e vidi che il bus era già pieno, mancavano solo altre due persone. In tutto, compresa la guida, eravamo in venti. Avevo prenotato in un’agenzia a Perth, che mi avevano consigliato questo tour fra i tanti proposti, dopo aver ascoltato le mie preferenze.
Erano tutti ragazzi più o meno della mia età, che venivano dai paesi più diversi, Germania, Inghilterra, Olanda, Finlandia, Stati Uniti…
Partimmo con un bel sottofondo musicale scelto da Beej, la guida, che si rivelò davvero un gran bella persona, simpatica e alla mano. Bastava dargli un’occhiata per capire che fosse australiano.
Per arrivare alla prima tappa, il Kings Canyon, ci vollero circa quatto ore durante le quali tutti noi facemmo amicizia. Io ero preso dal fare fotografie e riprese al paesaggio che mi stava incantando. Spianate di terra che si estendevano all’infinito, piene di vegetazione tipica australiana. Strade lunghe e dritte che alla lunga potevano anche ipnotizzarti, dato il loro essere sempre uguali. Mi fermai dal fotografare quando mi accorsi che dopo quattro ore il paesaggio non era cambiato di molto. Non c’era nessun punto di riferimento lungo la strada che ti facesse capire quanta ne stessimo facendo.
Arrivammo al Watarrka National Park, sede del Kings Canyon. Beej parcheggiò il bus nella zona apposita e scendemmo. Tutto intorno era fantastico. Rocce scure molto alte ci erano intorno. Cartelli affissi in ogni posto ricordavano di portare con sé molta acqua, un litro per chilometro che si intendeva fare. C’erano delle colonnine per comunicazioni radio di emergenza, visto che nel deserto non c’era assolutamente la possibilità di utilizzare il cellulare.
Prima di incamminarci per il Canyon (camminata che sarebbe durata due ore solo per l’andata) la guida si raccomandò di mettere la crema solare per evitare di essere ustionati, dato che il sole del deserto picchia molto più del sole a cui eravamo abituati.
Fu una camminata lunga e pesante, sotto il caldo sole e con la possibilità di bere solo acqua che era diventata calda lungo il cammino. Inoltre, non avevo avuto l’accortezza di comprare una retina contro le mosche: errore madornale. Non credevo che nel deserto ci potessero essere tante mosche. Ho fatto tre giorni a muovere le mani davanti al volto per scacciare le mosche che letteralmente ti invadevano.
Si camminava e ci si arrampicava lungo queste strade tra le rocce, con piccole soste, per arrivare finalmente al Canyon. La vista era mozzafiato. Un Canyon profondissimo, grandissimo e di un colore davvero acceso, grazie alla luce del sole che si rifletteva contro. Restai senza fiato. Inoltre, non vi erano nemmeno barriere per delimitare le rocce dal burrone, quindi questa precauzione era dettata solo dal buon senso delle persone nel non avvicinarsi troppo.
Proseguimmo scendendo dalla parte opposta per arrivare fino in fondo alla vallata dove, tra le grandi rocce, vi era un lago: “The garden of eden”. Il caldo fece si che fossimo tutti in acqua in meno di un minuto e, ugualmente, fece in modo di asciugarci allo stesso tempo.
Tornati al bus nel pomeriggio ci avviamo verso Curtin Springs dove, dopo due ore di strada, allestimmo un bush-camp in pieno deserto. Accendemmo il fuoco, con la legna recuperata lungo la strada, ci sistemammo tutti intorno con i nostri sacchi a pelo. Nel frattempo tutti davano una mano per cucinare. Dal bus veniva fuori musica rock anni ’70, mi sembrava di essere tornato indietro nel tempo. Per un momento dimenticai tutto della mia vita, vissi solo quella serata, con i ragazzi che avevo conosciuto e con i quali avevamo stretto già un bel rapporto, pieno di domande e di battute. L’unica pecca fu che non avevamo potuto lavarci in nessun modo, per cui ci ritrovavamo tutti sudati e sporchi senza possibilità alcuna di lavarci, se non il giorno dopo nel resort di Ayers Rock.
La notte fu bellissima. Sdraiati nel sacco a pelo (a dire la verità dormii in boxer sopra il sacco a pelo perché credo ci fossero comunque trenta gradi anche di notte) nel buio della notte ad osservare il cielo e le stelle. Quando il fuoco si spense provai un’esperienza che non avevo e che non ho più provato. Restare completamente al buio, senza luci in lontananza, senza bagliori di città vicine. Solo la lucentezza della luna e delle stelle. Fantastico.
Venerdì 23 Gennaio 2009
Mi svegliai l’indomani mattina per i rumori che Beej faceva per caricare tutto sul bus. Erano le quattro del mattino, l’alba era già iniziata. Non molto lontano da noi una carovana indipendente di cammelli andava verso le pianure del deserto. Il cielo stava iniziando a colorarsi di mille colori e le mosche avevano già iniziato la loro giornata.
Ci avviammo verso il parco nazionale di Kata Tjuta. Anche in questo caso ci vollero due ore di strada. Le lunghe strade che separavano i vari luoghi erano bellissime. Non c’era modo di annoiarsi tra una destinazione e l’altra; un po’ per l’amicizia che si era creata tra di noi, un po’ perché era stupendo lasciarsi andare, ascoltare la musica ed osservare la strada che sembrava non finire mai.
Verso Kata Tjuta passammo nelle vicinanze di Ayers Rock, quindi ci fermammo per strada per ammirare da lontano questo capolavoro della natura. Fu un’emozione indescrivibile essere seduto nel bus, osservare verso destra e poter vedere magicamente Uluru comparire lentamente dal finestrino.
A Kata Tjuta facemmo un tour verso “The Valley of the Winds”. Erano le dieci del mattino e la temperatura era già di quaranta gradi. Dovevamo fare questo tour in maniera abbastanza svelta anche perché dall’una in poi sarebbe stato chiuso per via del troppo caldo.
All’ingresso del parco nazionale, vi era una piccola grotta con disegni aborigeni di cento anni prima: le classiche mani dipinte al muro. Gli aborigeni utilizzavano dei coloranti naturali estratti da piante, che mettevano in bocca per poi spruzzare contro la mano appoggiata al muro. Era incredibile come il colore fosse ancora lì, vivo e pulsante.
Terminato questo tour potemmo andare in un resort non lontano da Ayers Rock. Yulara, per poter mangiare e finalmente lavarci, anche se osservati da vari animali tra cui varani e Goanna.
Questo resort era strutturato come un camping ma praticamente era un piccolo paese nel deserto dove c’erano negozi di souvenir, un piccolo motel, un bar, un ristorante e delle cabine internet a gettoni dove con un dollaro avevi diritto a dieci minuti di connessione. Fu un trionfo della tecnologia poter inviare una mail alla mia ragazza dal centro dell’Australia.
Nel tardo pomeriggio ci avviammo verso Uluru per osservarlo al tramonto. Non vedevo l’ora di vederlo, sia perché era l’obiettivo del mio viaggio, sia perché avevo tanto sentito parlare del suo famoso cambiamento di colore al tramonto.
Arrivati nel piazzale ci sistemammo e iniziammo a preparare da mangiare per la sera mentre il sole calava ed Uluru aveva iniziato la sua fantastica metamorfosi. Dapprima chiaro, poi sempre più scuro, fino ad arrivare a vedere solo la sagoma nera sullo sfondo di un cielo azzurro e poi blu limpidissimo.
- Uluru (Ayers Rock)
- Uluru (Ayers Rock)
- Uluru (Ayers Rock)
- Uluru (Ayers Rock)
Dopo mangiato tornammo tutti insieme a Yulara, per la notte. Prima di arrivare al resort Beej si fermò in un Roadhouse con varie persone appoggiate al bancone in legno intente a parlare con la barista. Mi sembrava di vivere in un film, vidi cose che in Europa non avevo mai visto. Lungo la strada ci fermammo ancora per comprare delle birre, visto che erano molto economiche. Quel posto era davvero unico.
Questa volta dormimmo sempre all’aperto, ma in una zona molto più angusta dal punto di vista degli animali. Infatti, oltre a dover tenere sempre il fuoco acceso, Beej scelse quattro di noi per il “controllo serpenti”. Ci diede un bastone a testa e, a gruppi di due, facemmo il giro della zone scuotendo tutti i cespugli e battendo forte i piedi a terra, dato che i serpenti sentono le vibrazioni del terreno.
Questa cosa dei serpenti mi aveva messo un po’ di agitazione all’inizio e dentro di me pensavo di infilarmi nel sacco a pelo per avere meno pelle a contatto con l’esterno. Idea che fu subito scartata per via del caldo che continuava a persistere anche durante la notte. Anche in questo caso, il caldo vinse sulla “paura” dei serpenti e dormii di nuovo in boxer sopra il sacco a pelo anche se avrei dovuto avere a che fare con formiche ed insetti vari.
La notte passata a Yulara fu fantastica tanto quanto quella precedente. Si parlava con i vicini di sacco a pelo, ci raccontavamo e descrivevamo le vite che facevamo nel nostro paese, le nostre idee, i nostri progetti. Allo stesso tempo ero eccitato per la visita ad Uluru l’indomani mattina all’alba.
Sabato 24 Gennaio 2009
Fummo svegliati alle quattro del mattino per recarci di nuovo ad Uluru per osservarlo all’alba togliersi di dosso il buio della notte e caricarsi del colore rosso tipico man mano che saliva il sole.
Dopo questo andammo a fare colazione in un area di sosta non molto lontana. Nel frattempo telefonai da una cabina a degli amici che avevo conosciuto a Perth e con i quali mi sarei incontrato più avanti a Melbourne per raccontargli cosa stavo facendo. Ero troppo eccitato da quello che stavo vedendo che dovevo raccontarlo a qualcuno.
Arrivammo al cospetto di Uluru per fare un giro completo della roccia. Fra le varie proposte c’era anche la scalata della roccia, cosa che rifiutai subito, per non mancare di rispetto agli aborigeni che considerano Ayers Rock, Uluru nella loro lingua, un posto sacro, come sacro è tutto quello che c’è intorno.
Nel museo aborigeno che visitai tempo prima imparai tante cose riguardo alla loro cultura. Una cultura fantastica, piena di significato mistico e con leggende incredibili. Come la leggenda del dreamtime, secondo la quale tutto il mondo è esistito da sempre ma l’umanità prese vita solo quando gli spiriti dormienti creatori si svegliarono, appunto, dal dreamtime, e crearono uomini ed animali per poi, dopo aver finito il loro lavoro, fermarsi sulla terra per divenire rocce, stagni, corsi d’acqua ed altri luoghi sacri. Per questo non mi sembrò giusto scalare Uluru e per questo provai un leggero fastidio quando vidi persone accingersi a farlo.
Infatti, sia Uluru (nome usato principalmente per chiamare la roccia, mentre Ayers Rock ora viene principalmente usato per chiamare la piccola cittadina nelle vicinanze) sia tutto il parco nazionale Kata Tjuta sono luoghi sacri per gli aborigeni. Quello che mi colpì molto furono i cartelli che chiedevano ai turisti di non scalare Uluru. Mi colpì il modo in cui erano scritti. Non i classici “Divieto di scalata” o “vietato scalare Uluru”. No, i cartelli avevano delle frasi e spiegavano gentilmente ai turisti che quello era un luogo sacro e che se avesse scalato Uluru, piuttosto che fatto fotografie, loro sarebbero stati molto dispiaciuti. Un cartello, secondo me, molto più efficace di qualsiasi divieto in assoluto.
Un’altra cosa che mi colpì fu “Il libro delle scuse” nel museo aborigeno all’interno del parco nazionale. Era un grosso raccoglitore posto su un leggio dove, all’interno del libro, c’erano centinaia di lettere di persone che avevano (volutamente o magari in buona fede) preso dei sassi di Ayers Rock come ricordo da portare a casa e che tempo dopo le avevano restituite allegando anche una lettera di scuse. Si dice che portare via sassi da Uluru porti sfortuna. Personalmente non saprei dire se sia vero o se magari si tratti di una scusa per demoralizzare i turisti, fatto sta che molti restituivano i sassi raccontando nella lettera di quanta sfortuna avevano avuto dal giorno in cui erano andati via da Uluru. Molti altri le restituivano perché con il tempo avevano capito quanto era sbagliato quello che avevano fatto. In effetti, anche se può sembrare strano come paragone, Uluru è un luogo sacro ed è come se qualcuno avesse portato via un pezzo della Cappella Sistina o un frammento del Colosseo.
Decisi di staccarmi dal gruppo per fare da solo il giro completo del grande monolite. Dieci chilometri. A dire la verità non credevo potesse essere così grande, anche se a pensarci bene era possibilissimo, visto che Uluru è così imponente da essere visibile a decine di chilometri di distanza.
Mi incamminai lungo il percorso, coprendomi il volto con una maglietta indossata come una bandana, per ripararmi dalle mosche. Lungo il percorso incontravo persone ferme nelle zone di sosta, per recuperare le forze o per riempire le bottiglie con acqua che, anche se calda, era pur sempre acqua.
Fu una camminata fantastica. Sarà stato per l’emozione di essere lì o forse per la suggestione delle leggende aborigene che avevo sentito ma mi sembrava di effettuare un percorso mistico. Era come se fossi davvero consapevole di essere in un luogo sacro e mi curavo di non calpestare la vegetazione o di non camminare dove non dovevo. Camminavo lentamente gustandomi con gli occhi il paesaggio sorprendente che avevo davanti a me. Uluru, che da lontano sembrava una grossa roccia liscia, da vicino aveva mille insenature, grotte, sorgenti e dipinti, dovutamente segnalati per poterli osservare.
Tornati al bus, ci incontrammo tutti insieme per il lungo rientro ad Alice Springs. Lungo la strada ci fermammo un paio di volte, prima in un bellissimo museo aborigeno, poi in una Camel Farm. Al rientro in città ci demmo appuntamento al ristorante The Rock Bar, che si trovava proprio nell’ostello dove alloggiavo io, nel posto in cui la sera avremmo mangiato tutti insieme. Fu una bellissima serata, finalmente mi feci una bella doccia e mi presentai fresco come una rosa. A parte la barba, quella decisi di tenerla. Faceva molto “on the road”.
Ci facemmo fare molte foto, ci scambiammo gli indirizzi e-mail per poter restare in contatto, sia lungo il viaggio in Australia che tutti stavamo facendo, sia per stare in contatto per poi vederci di nuovo in Europa. Dopo aver percorso queste distanze, l’idea della lontananza tra Milano e Londra si era quasi annullata. Un’ora e mezza di volo sembrava a tutti un’inezia.
Il mattino dopo il pulmino dell’ostello mi aspettava puntuale per andare all’aeroporto. Salutai tutti, dalla receptionist agli altri ragazzi che lavoravano lì. Salii sul bus e mentre mi allontanavo da Alice Springs, continuavo a guardarmi indietro, come per poter avere un ultimo ricordo con me mentre tornavo a Perth, dove avrei proseguito il mio viaggio.